martedì 9 febbraio 2010

paraBnormal activity


E' il film del momento, ma mentre tutti ne parlano e i cinema si riempiono, subito dopo la visione il malcontento generale impazza. A nulla sono infatti valse le leggende metropolitane che ne hanno anticipato l'uscita, come quella che vede uno spaventato Steven Spielberg interrompere a metà la proiezione perché troppo terrorizzato per continuare, nonostante Lo Squalo sia in alcuni punti molto più agghiacciante di Paranormal Activity. Un vero fallimento insomma, poiché chi si aspettava un degno successore di The Blair Witch Project è stato deluso fino all'ultimo minuto della pellicola.
La trama pressoché assente documenta una normalissima vita di coppia in cui i due ragazzi parlano dello studio, del lavoro, della cena da preparare e ah, ecco, anche di un demone che talvolta si manifesta: una routine scialba e strampalata al tempo stesso in cui l'elemento terrore è difficile da inserire, ma le aspettative sono ancora alte. Un altro punto a sfavore dell'atmosfera da brividi che si vuole ricreare è l'ambientazione in un tranquillo quartiere alla periferia di San Diego, così simile a tante zone verdi statunitensi, che però non insinua nello spettatore il dubbio Hitchcockiano che anche la tranquillità più collaudata può essere minata: al contrario ci mostra che in una casa carina ed accogliente piena di finestre da cui fa capolino il sole nulla di male può accadere, a meno che non si voglia che il male si manifesti. Ed è proprio ciò che accade.
Durante questi 21 giorni i fenomeni paranormali si susseguono in un crescendo tipico di ogni storia dell'orrore degna di questo appellativo, ma il comportamento di Micah e Katie è invece discordante; pronti ad urlare per una semplice porta sbattuta la prima notte, discutono poi con noncuranza se sia il caso di chiamare un demonologo, e la decisione negativa in proposito si ritorce loro contro: la strana entità prende possesso della casa ed agisce indisturbata, vedendo il campo libero come un invito ad entrare e ad agire.
Ma l'ambientazione urbana e famigliare non è l'unico scoglio che lo spettatore deve superare per immedesimarsi in un clima paranormale, anche il cast è a dir poco penoso: lei perennemente imbronciata e impaurita nei momenti meno salienti si rende a dir poco insopportabile, lui bamboccio grato a questa strana situazione che gli è capitata si mostra ridicolo quando tenta di assalire il demone, urlandogli che "nessuno può permettersi di venire a far casino a casa sua, tanto meno con la sua ragazza". Le incongruenze e le risate a mo' di sfottò si rincorrono, contraddistinguendo gli 85 minuti messi in piedi da Oren Peli da una logica inesistente che avrebbe potuto avere successo solamente se preannunciata da un forte battage pubblicitario molto più solido della frase "tratto da una storia vera" che oramai non impressiona più nessuno.
Nel 1999 fu lanciata in Rete la bufala che narrava della scomparsa di 4 giovani cineasti in una foresta del Maryland e di cui furono trovate le drammatiche riprese solamente 5 anni dopo la loro sparizione. Dopo alcuni mesi uscì
The Blair Witch Project e grazie al susseguirsi di notizie riprese perfino dai giornali circa il destino dei ragazzi il botteghino registrò la cifra record di 250 milioni di dollari, nonostante l'horror ne fosse costato soltanto 500.000. Ecco quindi in che cosa pecca Paranormal Activity: se il film fosse stato anticipato da informazioni sulla natura del demone, sull'infanzia di Katie e perché no, anche su quella di Micah, saremmo arrivati nelle sale cinematografiche con dettagli aggiuntivi circa le loro storie che già ci avevano un po' messo in guardia, evitando di venire catapultati in una realtà che vuole spacciarsi paranormale senza minimamente esserlo.
Come si giustifica allora questa smania di andare a vederlo? Semplicemente perché la favoletta del ragazzo che l'ha realizzato con soli 17.000 dollari ci piace, incarna magnificamente il sogno americano di Arthur Miller, e in un periodo di crisi come quello in cui ci stiamo trascinando abbiamo bisogno di una speranza a cui aggrapparci. Anche se forse il film è costato molto di più.




venerdì 5 febbraio 2010

BUON COMPLEANNO FACEBOOK!

Ieri, 4 febbraio 2010, era il compleanno di Facebook. Sono già 6 anni che Mark Zuckerberg ha dato il via a questa rete che in breve tempo ci ha tutti accalappiati, tanto che quando si conosce una persona la fatidica domanda "mi dai il tuo numero di telefono?" è stata ormai rimpiazzata da un molto più trendy "hei ma tu ci sei su facebook?!", ad una cui risposta positiva corrisponde un fluire di nuove attività da fare insieme: quiz per scoprire la principessa Disney che vive dentro di te, partite a poker, giochi di ruolo tra fattorie e guerre di bande, drink offerti e qualsiasi altra scempiaggine vi venga in mente (la fantasia non supererà mai la realtà virtuale). Sarebbe quindi riduttivo definire il noto social network come un sostituto del cellulare, poiché la funzione contatto è solo una scusa per vivere una coinvolgente avventura in un parcogiochicibernetico dove chiunque può aspirare ad un paio di giorni di notorietà, e il fiorire di centinaia di gruppi all'ora ben focalizza questa tendenza sinonimo di crisi adolescenziale (nonostante i non-adolescenti siano più numerosi!), alimentata dal desiderio di appartenenza ad un ben definito cerchio sociale visto come la chiave della loro popolarità .
Ecco allora che perfino online siamo in grado di definire sfigato quel tale che ha solo 57 amici e non ha mai molti post sulla sua bacheca, un po' come avveniva anni fa quando si veniva snobbati solamente perché vestiti in m
aniera semplice e anonima, senza una chiara adesione ad una casta modaiola.
I tempi passano e le modalità si evolgono
, ma quello che non cambierà mai è il desiderio di essere considerati parte di un gruppo e di venire accettati dallo sguardo denigratorio degli altri, nascondendo le proprie debolezze in favore di un'immagine forte e seducente.

martedì 2 febbraio 2010

IL NON-FASCINO DELLA BELLEZZA ROBOTICA


WebUrbanist ha da poco stilato una classifica delle 15 oscenità "made by Photoshop", dimostrando che il fotoritocco spesso e volentieri peggiora uno scatto anziché migliorarlo. Già perché tra gambe che scompaiono, visi che si accorciano e mani che spuntano dal nulla, le copertine sono ormai un tripudio di extraterrestri deformi e innaturali, decisamente più adatti ad una rivista fantascientifica che non alle pagine glamour e patinate di Vogue.
Un chiaro manifesto per una società complessa e pretenziosa come la nostra, ma la cui complessità segue comunque una linearità scialba e banale, che ci impone un modello unico al quale conformarci e al quale troppo spesso aderiamo senza porci la minima domanda, come degli automi degni di un film di Spielberg, dimostrando la fondatezza del connubio PLASTICITA'/BELLEZZA: sono bello perché sono plastico, e solo mostrandomi tale riesco ad apparire bello. Il rischio è che un po' alla volta non si tratta più della maniera nella quale ci mostriamo, ma di come realmente stiamo diventando, seguaci di una moda plastica e manierista a cui i divi del cinema fanno da capostipiti.
I commenti positivi sul corpo nudo della modella di turno non si contano più nonostante l'ovvia sproporzione tra il suo girovita da vespa e il segno prosperoso a cui fanno da contrappeso le braccia di una undicenne, ed ecco che questa evidente disarmonia inspiegabilmente ci piace. Che il gusto non ci appartenga più? Non esattamente. Il senso estetico non si è allontanato da noi, siamo solo di fronte ad un radicale capovolgimento che ci fa piacere obbrobri spaventosi, tali non perché brutti e diversi, ma perché tutti uguali e innaturali.