mercoledì 23 novembre 2011

BREAKING va proprio DoWN


Ultimamente va di moda suddividere i film in 2 parti, e la saga di Twilight si adegua allegramente facendo uscire solamente le prime 350 pagine del quarto romanzo. La regia è affidata a Bill Condon, che riesce a risollevare leggermente le sorti deludenti verso cui erano precipitati il secondo e il terzo capitolo, ma ciò non significa che la soddisfazione dello spettatore sia stata raggiunta.
I 117 minuti scorrono lentissimi facendo il verso alle soap opera più noiose del palinsesto, contando su dialoghi vuoti e privi di senso -e per un film
fantasy è tutto un dire!- pronunciati da attori dalle doti interpretative semi-amatoriali. Non male per una pellicola che dovrebbe avere nella passione il suo fil rouge! La trama ruota intorno al nulla più puro, dilatandosi nei momenti morti fino a svenire e accelerando le emozionanti parti che milioni di telespettatori aspettavano fin dal primo incontro dei due amanti, riducendo ad una manciata di secondi la fatidica scena dell'accoppiamento tra Edward e Bella. Non che il film doveva trasformarsi in una pellicola a luci rosse, però l'aggiunta di qualche fotogramma non sarebbe stata sicuramente disdegnata, regalando qualche sussulto romantico alle ragazzine palpitanti incollate allo schermo.
Un piattume degno di nota insomma, che non sale in cima alla classifica solamente perché lo scalino dell'obbrobrio cinematografico è già stato toccato dagli ultimi due capitoli usciti in precedenza. L'unico picco emotivo viene raggiunto nella scena finale, tramutando il parto casalingo in una scena splatter degna dell'Esorcista: peccato che qui non trova però ragione di esistere viste le pacate atmosfere delle due ore precedenti! Una sottile vena comica fa invece capolino nel momento in cui il veleno si propaga lungo il sentiero arterioso di Bella, traghettandoci direttamente in una puntata di Esplorando il Corpo Umano: ah, l'infanzia, che bei ricordi, come evitare di sorridere? Impossibile.Chi si aspettava una degna trasposizione dei romanzi della Meyer non avrà certamente saputo nascondere la sua delusione, ma vedetela così: si tratta pur sempre di una delusione costata 170 milioni di dollari. Marketing incluso, claro.

lunedì 21 novembre 2011

la RHAPSODY del secolo è BOHEMIAN


Scritta da Freddy Mercury per l'album A Night at the Opera, è forse la canzone più famosa dei Queen. Forte del suo stile opera-rock, questa traccia riposa su una struttura alquanto inusuale per un titolo di musica rockettara: è infatti suddivisa in sei parti ben distinte, è sprovvista di ritornello e in più si avvale di arrangiamenti a cappella alternati ad arrangiamenti in puro hard rock sound.
Ma nonostante la singolarità del suo formato il 45 giri diventa immediatamente un fenomenale successo commerciale. Un brano che sfiora i 6 minuti e che secondo gli esperti del mestiere non potrà mai incontrare il favore del pubblico, ma dopotutto sbagliare è umano e i riconoscimenti ottenuti nel corso degli anni sono innumerevoli.
Bohemian Rhapsody inizia con un si bemolle maggiore e subito la voce narrante si interroga sulla differenza tra "il reale" e "l'immaginario" concludendo che "nessuno può scappare dalla realtà"; l'atmosfera onirica è qui rafforzata dalle parole dello stesso Mercury, le cui corde vocali creano un seducente duetto con il pianoforte a coda appena introdotto. Dopo 2 minuti scarsi di ballata l'assolo chitarristico di Brian May traghetta l'ascoltatore verso la terza parte della canzone, quella che in maniera magistrale evoca una vera e propria opera lirica: una rapida serie di cambiamenti ritmici ed armonici che contribuiscono ad enfatizzare la discesa negli inferi a cui andrà incontro il narratore, creando un'atmosfera dai toni un po' lugubri che trova il gran finale nell'ultima nota in falsetto di Roger Taylor. Ecco che tutto è pronto per tendere l'orecchio e dal giradischi arrivano i spiazzanti 45 secondi della sezione hard rock, conclusa la quale Mercury si esibisce con una scala diatonica rabbrividente per poi tornare alle tonalità dell'introduzione, e voilà, il cerchio è chiuso.
Dei generi completamente diversi miscelati con grande maestria insomma, ma che maestria! Questa rapsodia boema è un veritabile trip musicale che racconta una storia malinconica come tante, capace di accompagnare l'ascoltatore nei meandri più reconditi di un coloratissimo mondo onirico. Quando questa canzone parte veniamo immediatamente presi per mano dalla band, che ci guida in un melodioso sogno nota dopo nota, così anche se ci dovessimo perdere beh, riusciremmo comunque a trovare la strada di casa.

mercoledì 5 ottobre 2011

Strangeways, Here We GROW UP


Un nome, una band. Un nome forse fin troppo lineare, che non racchiude la complessità della loro essenza. Ma perché ho deciso di dedicare loro uno spazio sul mio blog, nonostante in questo periodo non siano usciti alla ribalta con qualche notizia, o non decorra nessun particolare anniversario? Semplice: perché ricordo l'istante preciso in cui mi innamorai della loro musica, dov'ero e con chi, cosa stavo facendo e a cosa stavo pensando. Non sono tanti gli artisti di cui riesco ancora ed evocare le coordinate della primissima volta in cui li ho ascoltati, ma gli Smiths sono indubbiamente tra questi.
Nella mia seppur breve esistenza ho letto molti romanzi ma non sono in grado di collegare a nessun'altra lettura la folgorazione che mi ha invaso la prima volta che mi sono cimentata con le loro liriche: tutte queste allusioni ad un'adolescenza tormentata, alla tristezza che invade le menti di ragazzini speranzosi, alla negatività di una vita che mai ti ripaga, alla morte che pare attenderti a braccia aperte, a diavoli tentatori che fanno salire nelle loro auto giovinetti innocenti per trasformarli in uomini... erano riferimenti talmente sconvolgenti da risultare assurdi.
Eppure questa loro illogicità era imbarazzantemente vera, e non era necessario essere nel pieno della pubertà per comprenderla. Già perché gli Smiths, romantici sognatori tormentati equiparabili a Keats e Baudelaire, erano in grado di dar voce alle difficoltà che si incontrano in quel difficile periodo di crescita dove pare essere gli unici destinatari di un crudele destino. Ecco quindi che i testi di Morrissey ci vengono in soccorso dandoci tutte le risposte necessarie senza bisogno di chiederle, e le melanconiche melodie che ne accompagnano i testi si trasformano nella inimitabile colonna sonora dei nostri sogni infranti.
Un gruppo celebre di cui pochi hanno sentito parlare, nonostante alcuni loro brani siano conosciuti ai più, eppure quando li cito sono in molti a strabuzzare gli occhi. Formatisi a Manchester, questo quartetto manovra come nessun altro prima di lui inquietudine, energia ed eleganza, grazie all'amalgama tra un chitarrista rigoglioso di idee e un paroliere d'eccezione che ci obbliga ad abbondare con le contraddizioni qualificatrici: eccentrici esteti, esibizionisti introversi, androgini cerebrali...nulla è mai troppo quando si evoca uno dei gruppi più strabilianti dei magnifici anni '80.


martedì 13 settembre 2011

Tanto rumore per... Super 8


Durante la visione del trailer avevo già mentalmente messo in nota l'appuntamento con l'attesissimo film di J.J. Abrams, ma ahimé che delusione! Non che la pellicola non sia degna di menzione, per carità, ma se come me vi aspettavate un'arzigogolata trama alla Lost beh... diciamo che la sua mano è qui del tutto invisibile. Molto più evidente è invece lo zampino di Spielberg (e non mi riferisco solo alla moltitudine di citazioni di cui è pervaso il film!), che pur limitandosi a mero produttore riesce in un modo o nell'altro a condurlo verso una regia sognatrice ed eclettica.
Una storia che a mio avviso richiama molte fiabe anni '80 come E.T. e i Goonies, dove il fulcro di tutto sono ragazzini che si ribellano alle autorità per sconfiggere ciò che gli adulti vedono come Male ma che alla fin fine Male non è: i "grandi" infatti non riescono ad entrare nel mondo onirico dei "piccoli", e catalogano come malvagio tutto ciò a cui non riescono a dare una spiegazione logica.
Adolescenti e adulti, padri e figli, militari e scienziati. Anche una sorta di lotta generazionale dunque, oltre che una sfida verso la legge. Ma Super 8 è anche la classica storia di formazione con tanto di lieto fine il cui filo conduttore è il meta cinema, esaltato a finto protagonista fin dall'eponimo titolo, che ben sviluppa la voglia di affermarsi di questi tredicenni. Abrams non si risparmia proprio nulla e fa il verso ad uno Spielberg vecchio stampo condensando nel calderone amore, coraggio, adolescenza, extraterrestri, stelle e cinefilia.

Se mi è piaciuto? Ni. Io ho acquistato il biglietto pensando di andarmi a gustare un prodotto del 45enne newyorkese, ragion per cui ho accusato la delusione. Ma se fossi entrata nella sala (sprovvista di aria condizionata!) accingendomi a vedere una rivisitazione di E.T. non posso negare che l'obiettivo sia stato raggiunto.
Un alieno usato come puro pretesto, spesso fuori campo, per far compiere un percorso psicologico preciso ai suoi personaggi, un film vecchio stile visto in terza persona con mille rifrazioni della luce in campo e tante facce che guardano in alto verso il cielo o qualcosa di altrettanto maestoso, spaventoso ed imperscrutabile. Si insomma, un'opera di pura fantasia che si atteggia a finto remake.

giovedì 8 settembre 2011

WILD AT HEART: il road movie lynchiano


Ho già avuto l'occasione di parlare di David Lynch nel post dedicato a Twin Peaks, ma nello stesso periodo della serie il regista si cimentò anche con un film che ho consigliato ad un amico annoiato un paio di giorni fa.
Parlo di
Wild at Heart (Cuore Selvaggio), road movie capace di essere al tempo stesso una storia d'amore, un dramma psicologico e una commedia violenta: una mescolanza di ingredienti alquanto strana verrebbe da dire. Eppure se ci si sofferma a riflettere sulla catalogazione della pellicola ci si rende conto di come essa sia la narrazione di un viaggio dal percorso piuttosto strampalato, considerando il modo in cui i flashback e le storie parallele inserite nel continuum narrativo strattonano la temporalità del racconto tra passato e presente, tra il qui e l'altrove, impedendogli così di progredire verso una liberazione finale e frantumando il discorso filmico in un falso movimento lungo le grandi arterie stradali americane.
La classificazione come road movie è però secondo me solo parzialmente corretta, in quanto si tratta di un viaggio che non porta in nessun posto, e più che dall'avanzare in auto e perdersi nella vastità del continente americano (basta pensare a Thelma e Louise), il movimento viene dato dallo spostamento attraverso gli inserti filmici in soggettiva (i ricordi dei personaggi, le loro visioni...).
La combinazione aggressiva degli elementi sommata a un brusco montaggio ricorda un po' lo stile rapido e frammentario dei videoclip, e Lynch si serve proprio della colonna sonora per accentuare questa discontinuità, riportandola anche nel mix di generi musicali. Un utilizzo della musica ben orchestrato dunque, che aiuta a rendere ciò che è luminoso un po' più luminoso, e ciò che è nero un più nero, insistendo ancora maggiormente sui contrasti.
La vera sorpresa del film sta però secondo me nel finale, dove è possibile vedere la coppia che decide di restare unita e non andare invece incontro ad un destino crudele, contrariamente alle convenzioni semi-imposte dal genere; il fatto è che nessuno sembra avere un punto fermo cui fare ritorno dopo essersi smarriti, e il senso di spiazzamento dovuto alla mancanza di riferimenti spaziali pervade la pellicola nel suo intero. Ecco quindi che la conclusione trova una sua spiegazione se inserita in una
dimensione giovanile
frammentaria ed irrisolta, dove non ha importanza il luogo in cui approdare ma con CHI approdare. Una parabola di innocenza per bambini cresciuti, una storia di ingenua fiducia, una variante più misera del sogno americano: questo è a parer mio Wild at Heart, dove le questioni non chiarite possono restare insolute per l'alone fiabesco che lo pervade, perché se è vero che c'è una certa dose di paura, c'è comunque anche qualcosa di cui poter sognare.

venerdì 26 agosto 2011

HORRIBLE BOSSES

Chi non hai mai anche solo pensato di far fuori il proprio capo? Chi non ha mai covato la segreta speranza che il titolare non si presenti mai più sul posto di lavoro, lasciando così i dipendenti sguazzare in una crogiolante beatitudine? Appunto. Come ammazzare il capo... e vivere felici parte proprio da questo spunto: 3 amici trentenni si trovano a fantasticare su come potrebbe essere migliore la loro esistenza lavorativa senza il loro boss (detto tra noi il titolo originale è molto più evocativo e non lascia intendere che si tratti di una commediola-manuale su come ottimizzare la nostra realtà, ma coglie nel segno la crudeltà e l'idiozia di alcuni capi-tiranni), e con l'aiuto di un innoquo criminale mettono a punto il "geniale" piano.
Seth Gordon decide di voltare le spalle alla disoccupazione dilagante in cui lentamente stiamo naufragando, concentrandosi invece su un ambiente lavorativo florido dove l'umiliazione e lo schiavismo sono all'ordine del giorno, e a cui tutti devono sottostare per non incappare nel tanto agognato mondo dei non-stipendiati. Già il cast di sole celebrità è un forte segnale che la crisi non comparirà durante tutti i 90 minuti della visione, e per tenere alto il tasso di adrenalina e comicità all'interno di una farsa mossa unicamente da una irrefrenabile pulsione omicida, ma senza cadere in toni splatter o grotteschi, decide di seguire il fortunato esempio di
Una notte da leoni: situazioni imprevedibili, coincidenze strampalate e reazioni a catena sono infatti la ricetta del successo di alcuni recenti film dall'aria vagamente misogina ma pur sempre divertenti.
L'impetuosa verve comica del film ruota intorno alla sfavillante interazione dei 3 protagonisti, ai vivaci dialoghi di botta e risposta a cui danno vita dimostrandosi all'altezza delle star che brillano sullo sfondo, come se tutto fosse semplicemente frutto di una loro spontanea improvvisazione, come se il terzetto fosse all'attivo da anni e questa non fosse che l'ennesima prova a cui sono stati chiamati.
Al centro del film c'è quindi l'uomo medio, con i suoi sogni e le sue speranze, colmo d'illusioni circa la meritocrazia e i diritti inalienabili, ma che per un crudele scherzo del destino non trovano un riscontro, e mai lo troveranno se il capo rimane lo stesso. La convinzione che l'eliminazione del boss sia la chiave di tutto regge per l'intera proiezione del film, anche se una volta accese le luci sappiamo perfettamente che ci vuole ben altro per alleviare i nostri problemi, ma almeno per una buon'ora e mezza ci siamo abbandonati alle risate e abbiamo avuto l'opportunità di ammirare una Jennifer Aniston erotomane e sboccata, che nulla ha da invidiare a un Colin Farrel versione cocainomane-sfigato e col riporto.

venerdì 19 agosto 2011

...quel 24 marzo 1984...

Don't you (forget about me) dei Simple Minds passa alla radio e mi viene una sola voglia: riguardarmi The Breakfast Club sdraiata sul divano in totale solitudine. Molti l'hanno definito il manifesto degli anni '80, ed effettivamente è probabilmente il film che più di altri è riuscito a rappresentare efficacemente quei magici dieci anni.
Non solo per la classica storia adolescenziale (diverse pellicole avevano in precedenza trattato questo tema) ma soprattutto per il modo di enfatizzare e portare all'attenzione argomenti quali il disagio famigliare, l'alcoolismo, la violenza sui figli, la non considerazione, i problemi di socializzazione, l'eccessivo e dannoso interventismo da parte dei genitori. Prima di
questo film i ragazzi rappresentati nei "teen movie" erano sì desiderosi di avere le prime esperienze sessuali ed amorose (Tom Cruise in Risky Business, la stessa Molly Ringwald in Sixteen Candles) ma non avevano conosciuto gli stessi problemi dei ragazzi del The Breakfast Club. Si è quindi avuta una maturazione nella scelta di cosa parlare e specialmente come trattarlo.
Questo è il grande merito di John Hughes, regista del film, che con una sceneggiatura scritta in soli due giorni è riuscito a mettere a nudo le problematiche dei teenagers di trent'anni fa, da lui saggiamente catalogati come ATLETI, PRINCIPESSE, CRIMINALI, CERVELLI e SVITATE, come a voler indicare che nella vita si corre sempre il rischio di rimanere intrappolati in una determinata categoria, ma che questa non deve necessariamente rimanere la nostra a vita. Ecco quindi che a distanza di svariati lustri, un film erroneamente etichettato come commediola adolescenziale può invece rivelarsi utile per tutti quei giovani d'oggi che, al contrario di altri, non hanno avuto la fortuna di crescere in una decade che metteva le ansie giovanili al centro di una buona fetta dell'industria cinematografica.

venerdì 12 agosto 2011

MONUMENTI IN LETARGO


Ultima estate per salire in cima al monumento simbolo della Grande Mela, almeno fino al 2013. "Lady Liberty", la statua simbolo di New York e degli Stati Uniti, si rifà il trucco: infatti dal 29 ottobre (ovvero il giorno dopo il suo 125esimo compleanno) verrà chiusa al pubblico per i tanto attesi restauri che dovrebbero terminare nel giro di un anno rendendola così più bella, ma soprattutto più sicura. Già dopo gli attacchi dell'11 settembre 2000 il governo federale decise di chiudere l'accesso alla Statua della Libertà, considerando che in caso di emergenza i soccorritori non sarebbero stati in grado di intervenire adeguatamente.
Detto fatto, dopo tre anni di lavori e 6,7 milioni di dollari di investimento furono quindi riaperte al pubblico la base e la terrazza, e finalmente il 4 luglio del 2009 si aggiunse anche la corona. Ora è tempo però di completare quei lavori con altri 27,25 milioni di dollari per
ampliare finalmente i dispositivi di sicurezza anti-incendio, nonché per ammodernare gli equipaggiamenti elettrici e meccanici. "Ora è sicura, ma lo sarà molto di più quando avremo finito", ha affermato David Luchsinger, sovrintendete del monumento e di Ellis Island, citato oggi dal New York Times. Altre fonti ufficiali assicurano che l'accesso al pubblico sarà riaperto entro il 126esimo anniversario dell'inaugurazione, che avvenne il 28 ottobre del 1886.
Nel frattempo
Liberty Island
, dove sorge il monumento, continuerà ad accogliere i visitatori che vorranno vedere da vicino l'icona del sogno americano, seppur senza poterla visitare dall'interno, ma per realizzare del tutto il tanto agognato desiderio sarà sufficiente tornare tra una dozzina di mesi o poco più.

mercoledì 13 luglio 2011

L'Italia (purtroppo) non ha il vizio della memoria


Carpi, piazza Garibaldi: non si tratta certo della location più nota della città, ma ieri sera un uomo dalla personalità grintosa ed inarrendevole ne ha arricchito l'atmosfera. Sto parlando di Salvatore Borsellino, fratello del ben più noto Paolo, che da qualche anno gira l'Italia dedicandosi attivamente alla sensibilizzazione riguardo al contrasto della criminalità organizzata, del malgoverno e delle collusioni tra politica e mafia.
La sanguinosa Strage di via D'Amelio in cui oltre al giudice sono morti gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Mulli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, è stata spesso definita un attentato di stampo terroristico-mafioso, ma l'attivista ci tende a sottolineare come questa sia in realtà una strage dello Stato. Io direi quasi che il 19 luglio 1992 ha avuto luogo una carneficina dello stato contro lo Stato, e l'utilizzo o meno delle maiuscole non vuole essere casuale: il governo nulla ha fatto per impedirne l'attuazione, e ha impiegato tutte le forze in suo possesso per colpire nel cuore un gruppo di persone che dedicavano la loro vita alla rimessa in piedi di un'Italia sana e pulita.
Delle morti che hanno lasciato un segno dunque, ma che saremmo disposti ad accettare se intravedessimo un barlume di miglioramento; tutti noi però siamo coscienti che così non è stato, anzi più passa il tempo e più questo "sacrificio umano" tende a cadere nel dimenticatoio risultando quindi vano.
Forse ha ragione Colombo quando afferma che noi italiani "non abbiamo il vizio della memoria", perché stragi come queste dovrebbero arricchire il memoriale che è in ognuno di noi, un memoriale a cui dovremmo attingere giorno dopo giorno nella speranza che uno stato come quello in cui ci trasciniamo da più di vent'anni si trasformi finalmente in Stato.



giovedì 14 aprile 2011

[°REC]


Un martedì sera come tanti, ma un film in programma come pochi. Nonostante Rec sia uscito quasi 3 anni fa, soltanto ieri ho avuto occasione di guardarlo, e il mio scetticismo era già lì che fremeva pensando immediatamente a The Blair Witch Project, anch’esso caratterizzato dalle riprese finto-amatoriali delle camere casalinghe.

Ma una volta acceso il lettore dvd ho dovuto proprio ricredermi. L’horror iberico ancora una volta si rivela all’altezza del genere.

Premetto che
Rec è girato interamente in digitale, con l’uso costante della camera a mano. Questo particolare è il carattere più distintivo dell’intera pellicola, interessante non tanto per la trama quanto proprio per lo stile e la tecnica registica. L’incipit, deliberatamente fiacco e povero d’azione, funge da introduzione alla narrazione principale. Se inizialmente la mobilità e l’indecisione delle riprese possono disturbare la visione, successivamente questo carattere di amatorialità non fa che accrescere la partecipazione emotiva alle vicende riprese. In un crescendo di tensione e dubbio, il quadro di litigi condominiali si tinge di rosso, come il sangue che inizia a scorre nella cornice claustrofobica dell’abitato.
Intrappolati come topi, i personaggi, che rispecchiano velatamente le ipocrisie e i difetti umani, tentano di sopravvivere, costantemente sotto l’occhio impiet
oso della camera televisiva, avara di immagini, anche crudeli e violente, insaziabile nel suo bisogno di filmare la realtà. Da qui, parte inevitabilmente un riferimento diretto al voyerismo di televisione e cinema, implacabile nell’immortalare tutto ciò che può diventare spettacolo.
Abbondano i virtuosismi visivi della regia, che giustifica con l’artigianalità delle riprese le frequenti
inquadrature angolate, inclinate, ribassate o irrazionalmente mobili. Lo sguardo filmico è interamente soggettivo ed il montaggio è ridotto alla composizione di lunghissimi piano-sequenza. Ottimo l’uso del sonoro, volontariamente non-professionale, discontinuo, con inquadrature in cui il parlato non è corrisposto dalle immagini sullo schermo. Sono presenti anche interessanti effetti che legano il film con la tradizione dell’elaborazione video, come il bellissimo riavvolgimento della pellicola sulla scena dell’omicidio della donna anziana.
Per coloro che cercano brividi e salti sulla poltrona, Rec provvede anche da questo punto di vista. Il crescendo dell’ansia e l’ambiente ristretto portano ad un’altissima tensione, che sfocia in picchi di reale spavento, talvolta inaspettati, talvolta prevedibili, ma in entrami i casi di grande effetto. Con una non eccessiva presenza di elementi splatter, il film crea un’atmosfera decisamente disturbante, per la scarsità di informazioni, i colpi di scena, ma soprattutto per la capacità che le immagini hanno di catapultare lo spettatore nel claustrofobico mondo catturato dalla telecamera.
In meno di un’ora e mezzo, Rec infonde il germe del dubbio e quel velo di inquietudine, ultimamente non facile da provocare, che spinge a guardarsi le spalle quando siamo al buio…

lunedì 11 aprile 2011

CHI HA UCCISO LAURA PALMER?


L'8 aprile del 1990 David Lynch faceva il suo debutto in prima serata sul network americano ABC. Twin Peaks diventa subito un fenomeno popolare di tutto rispetto, e le varie citazioni apparse nei Simpson e in un episodio Disney ne sono l'esempio tangibile. La frase tormentone che più rappresentò il telefilm fu senza alcun dubbio «Chi ha ucciso Laura Palmer?», domanda chiave da cui si snodava l'intera trama e che raccolse i consensi di 22 milioni di telespettatori
nell'arco di due serie, per un totale di 20 episodi da 45 minuti l'uno.
Ma che cosa determinò un tale successo di pubblico? Difficile fornire una risposta razionale, considerando che all'oggetto della domanda l'aggettivo razionale non si attaglia per niente. Partiamo dalla trama. La serie inizia come un thriller piuttosto convenzionale: a Twin Peaks, cittadina dello Stato di Washington, sulla battigia di un fiume viene rinvenuto il corpo di Laura Palmer, la reginetta del locale liceo e c'è un agente speciale dell'Fbi che si getta anima e corpo sull'indagine. Fin qui tutto prevedibile ma… volete che David Lynch, l'autore del folle Eraiserhead, giri un thriller qualsiasi? Ecco allora che il detective (l'unico forestiero, il rappresentante del mondo "reale") si ritrova risucchiato in un'inquietante spirale di follia, tra uomini senza braccia che recitano versi oscuri, nani ballerini, misteriosi giganti e scambi di anime. Come dire: se esiste un inferno, deve somigliare molto alla piccola Twin Peaks. C'è poco da meravigliarsi, allora, se il nostro agente speciale finisce col tirare testate contro uno specchio.
Le coordinate del plot sono perfettamente lynchiane, hanno una forte componente surrealista e alternano magistralmente sequenze angosciose ed oniriche trainate da suggestive colonne sonore. Semmai ci sarebbe da chiedersi cosa ci facesse, in prima serata su un network così importante, un regista indipendente del tutto al di fuori dagli schemi. L'esperimento però ha il merito di funzionare in termini commerciali, che è poi l'unico aspetto che stava a cuore a chi ci aveva scommesso su fior di quattrini. All'epoca nessuno vide la cosa in questi termini, eppure Twin Peaks aprì di fatto le porte ai serial televisivi di grande qualità. Per dirne una: senza Laura Palmer non avremmo avuto i naufraghi di Lost.
Altra domanda lecita è che cosa il pubblico medio di mezzo mondo ci abbia potuto capire da una trama così contorta. Di sicuro ci fu chi cominciò a guardare questo telefilm credendolo un thriller come tanti e lo abbandonò per strada appena perse il bandolo della matassa. Qualche altro continuò a guardarlo, pur non capendoci granché, per vedere come sisarebbe conclusa l'intera vicenda. Qualche altro ancora, come Homer Simpson nella puntata del cartoon che rende omaggio al serial, guardò con espressione interdetta il cavallo bianco danzare su due zampe e poi gridò: «Wow! Mitico!». Ma è così che si fanno le grandi produzioni televisive.

lunedì 4 aprile 2011

LA MODA DEL MOMENTO

Se qualche mese fa ad impazzare era Wikileaks, altri segreti stanno ora per essere svelati da un nuovo sito internet che fa già tremare il mondo intero: Porn Wikileaks. Un giornalista "porno" arrabbiato con la suddetta industria cinematografica ha infatti pensato bene di diventare il Juliane Assange della situazione, rendendo noti nomi, indirizzi, documenti e perfino fotografie di case tratte da Google Maps. A quanto pare svelare "scabrose" notizie è in tutto e per tutto la moda del momento, su questo non ci piove, anche se in questo caso si tratta più che altro di gossip malriuscito generato per infangare gente REA di nascondere un passato lussureggiante.
Le personalità investite hanno già raggiunto quota 23.000, e la fonte di queste succulente notizie sarebbe il database dell'Adult Industry Medical Healthcare Foundation di Los Angeles, attiva fin dal 1998, nata a fin di bene come centro per test anti-aids e anti-malattie veneree dei lavoratori di un’industria che non impone l’uso del preservativo, se non nei film diretti specificamente al mercato gay. Il sito è stato registrato in Olanda già da alcune settimane, ma soltanto di recente è stata svelata la sua esistenza dal blogger Mike South.
Se per Jenna Jameson, Seymore Butts o Briana Banks ciò non rappresenta un problema in quanto non esiste un confine tra la loro vita privata e quella pubblica, per i circa 1.500 attori che hanno partecipato a pellicole hard in maniera anonima la rottura di questo argine può essere devastante. Già due insegnanti sarebbero stati licenziati proprio perché i loro nomi sono apparsi in questa lista, e gli scandali non accennano a fermarsi, dato che in molti hanno per anni tenuto nascosta la loro reale fonte di guadagno, abbandonando poi definitivamente questa professione per dedicarsi ad una vita che può tranquillamente essere raccontata.
Tanto chiasso dunque, che sta bruscamente minando intere famiglie "colpevoli" di avere un ex porno attore tra le loro fila. L'ideatore del sito ha annunciato che lo scopo sarebbe cacciare i gay da quest'industria poiché a suo avviso la stanno letteralmente rovinando, visto che si deve alla loro presenza l'obbligo del preservativo imposto dal Governo. Un'aspra battaglia dai sapori discriminatori quindi. Sicuramente non sono in grado di dire se questo sia il vero motivo o meno, ma una cosa è certa: per allontanare alcune persone ne sono state colpite molte altre, e non è vero che il fine giustifica i mezzi, come generalmente si suol dire. E in questo caso nessun mezzo sarebbe comunque giustificato essendo il fine per me illogico e inammissibile.


...e il gelato compie gli anni


3 aprile 2011: una data come tante, in cui le ricorrenze da festeggiare non si contano. Google ha scelto di omaggiare il 119esimo anniversario della prima apparizione documentata del gelato sundae, creato ad Ithaca (New York) il 3 aprile 1892 da John M. Scott, ministro umanitarista, e Chester Platt, co-proprietario della Platt & Colt Pharmacy. Conosciuto in Italia quasi unicamente in associazione con una celebre catena di fast food, questa leccornia ha seguaci in tutto il mondo, e il nuovo doodle del noto motore di ricerca ce lo dimostra. Una scelta un po' azzardata e probabilmente incompresa dai più, che avrebbero preferito celebrare invece il primo numero della Gazzetta dello Sport (notizia alquanto fondamentale per un popolo come quello italiano che vive di solo calcio!), oppure la firma del Piano Marshall da parte del presidente USA Harry Truman, o ancora l'uscita del celeberrimo francobollo "Gronchi Rosa", fino ad arrivare al lancio nel 2009 del Nintendo DS e all'avvio delle vendite dell'iPad negli States. Beh Google ci ha sorpreso, ha deciso di andare controcorrente. Forse per sdrammatizzare gli ultimi dolorosi avvenimenti, forse per l'arrivo della primavera, o più semplicemente perché tutto sommato siamo tutti dei gran golosoni!!