martedì 13 settembre 2011

Tanto rumore per... Super 8


Durante la visione del trailer avevo già mentalmente messo in nota l'appuntamento con l'attesissimo film di J.J. Abrams, ma ahimé che delusione! Non che la pellicola non sia degna di menzione, per carità, ma se come me vi aspettavate un'arzigogolata trama alla Lost beh... diciamo che la sua mano è qui del tutto invisibile. Molto più evidente è invece lo zampino di Spielberg (e non mi riferisco solo alla moltitudine di citazioni di cui è pervaso il film!), che pur limitandosi a mero produttore riesce in un modo o nell'altro a condurlo verso una regia sognatrice ed eclettica.
Una storia che a mio avviso richiama molte fiabe anni '80 come E.T. e i Goonies, dove il fulcro di tutto sono ragazzini che si ribellano alle autorità per sconfiggere ciò che gli adulti vedono come Male ma che alla fin fine Male non è: i "grandi" infatti non riescono ad entrare nel mondo onirico dei "piccoli", e catalogano come malvagio tutto ciò a cui non riescono a dare una spiegazione logica.
Adolescenti e adulti, padri e figli, militari e scienziati. Anche una sorta di lotta generazionale dunque, oltre che una sfida verso la legge. Ma Super 8 è anche la classica storia di formazione con tanto di lieto fine il cui filo conduttore è il meta cinema, esaltato a finto protagonista fin dall'eponimo titolo, che ben sviluppa la voglia di affermarsi di questi tredicenni. Abrams non si risparmia proprio nulla e fa il verso ad uno Spielberg vecchio stampo condensando nel calderone amore, coraggio, adolescenza, extraterrestri, stelle e cinefilia.

Se mi è piaciuto? Ni. Io ho acquistato il biglietto pensando di andarmi a gustare un prodotto del 45enne newyorkese, ragion per cui ho accusato la delusione. Ma se fossi entrata nella sala (sprovvista di aria condizionata!) accingendomi a vedere una rivisitazione di E.T. non posso negare che l'obiettivo sia stato raggiunto.
Un alieno usato come puro pretesto, spesso fuori campo, per far compiere un percorso psicologico preciso ai suoi personaggi, un film vecchio stile visto in terza persona con mille rifrazioni della luce in campo e tante facce che guardano in alto verso il cielo o qualcosa di altrettanto maestoso, spaventoso ed imperscrutabile. Si insomma, un'opera di pura fantasia che si atteggia a finto remake.

giovedì 8 settembre 2011

WILD AT HEART: il road movie lynchiano


Ho già avuto l'occasione di parlare di David Lynch nel post dedicato a Twin Peaks, ma nello stesso periodo della serie il regista si cimentò anche con un film che ho consigliato ad un amico annoiato un paio di giorni fa.
Parlo di
Wild at Heart (Cuore Selvaggio), road movie capace di essere al tempo stesso una storia d'amore, un dramma psicologico e una commedia violenta: una mescolanza di ingredienti alquanto strana verrebbe da dire. Eppure se ci si sofferma a riflettere sulla catalogazione della pellicola ci si rende conto di come essa sia la narrazione di un viaggio dal percorso piuttosto strampalato, considerando il modo in cui i flashback e le storie parallele inserite nel continuum narrativo strattonano la temporalità del racconto tra passato e presente, tra il qui e l'altrove, impedendogli così di progredire verso una liberazione finale e frantumando il discorso filmico in un falso movimento lungo le grandi arterie stradali americane.
La classificazione come road movie è però secondo me solo parzialmente corretta, in quanto si tratta di un viaggio che non porta in nessun posto, e più che dall'avanzare in auto e perdersi nella vastità del continente americano (basta pensare a Thelma e Louise), il movimento viene dato dallo spostamento attraverso gli inserti filmici in soggettiva (i ricordi dei personaggi, le loro visioni...).
La combinazione aggressiva degli elementi sommata a un brusco montaggio ricorda un po' lo stile rapido e frammentario dei videoclip, e Lynch si serve proprio della colonna sonora per accentuare questa discontinuità, riportandola anche nel mix di generi musicali. Un utilizzo della musica ben orchestrato dunque, che aiuta a rendere ciò che è luminoso un po' più luminoso, e ciò che è nero un più nero, insistendo ancora maggiormente sui contrasti.
La vera sorpresa del film sta però secondo me nel finale, dove è possibile vedere la coppia che decide di restare unita e non andare invece incontro ad un destino crudele, contrariamente alle convenzioni semi-imposte dal genere; il fatto è che nessuno sembra avere un punto fermo cui fare ritorno dopo essersi smarriti, e il senso di spiazzamento dovuto alla mancanza di riferimenti spaziali pervade la pellicola nel suo intero. Ecco quindi che la conclusione trova una sua spiegazione se inserita in una
dimensione giovanile
frammentaria ed irrisolta, dove non ha importanza il luogo in cui approdare ma con CHI approdare. Una parabola di innocenza per bambini cresciuti, una storia di ingenua fiducia, una variante più misera del sogno americano: questo è a parer mio Wild at Heart, dove le questioni non chiarite possono restare insolute per l'alone fiabesco che lo pervade, perché se è vero che c'è una certa dose di paura, c'è comunque anche qualcosa di cui poter sognare.