martedì 4 marzo 2014

C'era una volta... una favola noir



La raccomandazione è uno dei mali che attanaglia la societa odierna, e sono sempre stata infastidita nel vedere ambite posizioni ricoperte dai classici “figli di”. Ma quando la prole in questione raggiunge notevoli risultati dando sfoggio delle proprie e sbalorditive capacità, allora non posso fare altro che inchinarmi. Figlia d’arte dalla brillante carriera è Sofia Coppola, regista e sceneggiatrice a cui non si puo di certo fare una colpa se il padre è il noto cineasta Francis Ford, e in tutte le sue pellicole ha sapientemente dimostrato di conoscere i segreti del mestiere, conquistando  addirittura la prestigiosa statuetta per la sceneggiatura di Lost in Translation.
Dopo un debutto alla regia con Lick the Star, nel 1999 si affida alla trama dell’omonimo romanzo di  Jeffrey Eugenides e dirige The Virgin Suicides, narrando la triste vicenda di cinque giovani e incantevoli sorelle che decidono di togliersi la vita. Il tema trattato è doloroso e crudele però viene sviluppato con una delicata dolcezza, senza mostrare visibili episodi di sofferenza ma inserendo anzi momenti di cosiddetta gioia familiare e sociale; la piccola festicciola per il ritorno di Cecilia, la serata domestica davanti allo schermo e il ballo della scuola sono tipici spezzoni di un vissuto quotidiano sinonimo di allegria e amorevolezza, ma che all’interno delle quattro mura di casa Lisbon servono solo per dimostrare l’aridita affettiva di cui le ragazze si sono invece sempre attorniate. Figlie di genitori fisicamente presenti che provvedono ad ogni minimo bisogno, l’abbondanza e la prosperità  materiali ancor più sottolineano come la tragedia sia invece in agguato, facendo da abile contrappeso alla sciagura quotidiana da cui tutti parrebbero defilarsi.
Una classificazione superficiale lo definirebbe un film sulle differenze culturali e sociali di due generazioni che si scontrano: da una parte troviamo quella dei genitori ipocriti la cui unica preoccupazione è il perbenismo di facciata, ancorati ad una mente borghese e ad un’ideologia religiosa senza spiragli di luce, e dall'altra quella dei giovani, più aperti ad abbracciare la ventata di aria fresca che stava pian piano soffiando in quegli anni. 
Per me invece no, non è questa la direzione che la Coppola ha voluto intraprendere. Lei, visionaria sognatrice figlia degli anni ’70 ha messo in piedi una vera e propria favola, dove i contorni sono sì candidi e leggeri, ma mano a mano che scruti verso l’interno ti accorgi di come la superficie risulti totalmente discordante con la sostanza. In scena troviamo una famiglia borghese americana modello, che ha l'aspetto e l'apparenza di una favola, ma la sostanza è vuota e macabra: una volta aperta la scatola il fascino della confezione svanisce.
Dietro la magia splendente del villino americano, quindi, c'è una tragedia silente, invisibile, inespressa e soffocata. Una tragedia esistenziale che non si trasforma però in un incubo, ma semplicemente lo lascia un po’ alla volta trapelare. L’incubo è difatti sempre stato presente, ma si fa più esplicito con la crescita delle sorelle e il loro ingresso nell’adolescenza, il periodo tragico e incantato per antonomasia.
Una magia che si trasforma quindi in maledizione, quella che si abbatte senza pietà sulla famiglia Lisbon. Una maledizione tanto fatata quanto incomprensibile, a cui nessuno sa dare una spiegazione, una logica, che sembra improvvisa e immotivata, e quindi perfetta per una società metodica e razionale che invece vuole avere tutto sotto controllo. Proprio quello che più di tutto teme, l'inatteso e il passionale, piomba su di lei all'improvviso in modo funesto. Ma mantenendo comunque le sembianze e la grazia di una favola, bella e fatata come il volto etereo e innocente di quelle 4 sorelle.






mercoledì 3 aprile 2013

La (ri)vincita di PSYCO


Cosa rende grande un film? Perché alcune pellicole raccolgono critiche entusiastiche ed altre invece tendono a cadere nel dimenticatoio? Quesito alquanto interessante e di difficoltosa risposta, soprattutto tenendo conto che alcuni dei titoli che hanno fatto la storia del cinema non si sono né aggiudicati premi internazionali, né hanno concorso per essi. 
Caso esemplare è Psycho di Alfred Hitchcock, nominato a ben 4 premi Oscar senza strapparne alcuno. Eppure questo film del 1960 è rimasto nell'immaginario collettivo di molti, si continua a parlarne anche a distanza di 40 anni, inaugurando quel genere cinematografico in cui hanno trovato posto i vari Halloween e Scream. Dove sta quindi il trucco? Cosa ha fatto sì che l'opera del maestro del brivido venisse annoverata negli annali dei film che hanno fatto la storia di Hollywood? Per tentare di rispondere a questa domanda bisogna forse tentare di scavare al di là della trama ben congegnata e delle riprese minuziose. Psycho è un film che fa reagire lo spettatore, che lo lascia frustrato durante tutto il corso della visione, un film che ha reinventato la grammatica del cinema per intenderci, mettendo a nudo delle tematiche che saranno più volte riprese durante i successivi decenni, e ulteriormente rafforzato da un montaggio tanto abile quanto frenetico.
Senza tralasciare l'inquietante performance di Anthony Perkins, a Hitchcock va indubbiamente il merito di aver saputo imporre un'estetica televisiva, prendendo le distanze dal mondo patinato hollywoodiano, mettendo in piedi un intreccio senza eroi, senza star, senza alcunché che rimandi al glamour, con alla base una storia sordida e trasudante realtà. Un po' come se Spielberg si cimentasse in un'opera alla Wong Kar-wai o alla Thomas Vinterberg per intenderci.
Un regista che si immerge in un progetto distante anni luce dal suo campo di competenza, che vuole a tutti i costi realizzare un film che rientra perfettamente nei canoni della TV nonostante gli anni di militanza agli studi cinematografici di Los Angeles, un regista che si propone una sfida insomma. E che la vince. Non solo perché il progetto risulta ben riuscito, ma per la consacrazione e il trionfo di cui si è tinto: gli incassi da record e l'attenzione dei media l'hanno reso il suo maggior successo commerciale. Una pellicola che sperimenta l'interattività del cinema, che fa uscire di scena la star della locandina dopo appena un terzo della visione, in un disegno che disorienta i censori: la scena è montata talmente bene -non un grido, non il benché minimo contatto tra la lama del coltello e la carne, ma solamente musica e sangue sulle mattonelle- da evocare la morte in tutta la sua natura più primordiale -l'ambientazione fredda, la vulnerabilità del nudo-, erigendosi a capolavoro della Settima Arte.
Anche qui Hitchcock riduce i suoi personaggi a meri McGuffin il cui unico scopo è portare lo spettatore verso il 130esimo minuto, senza nessuno spazio per l'identificazione e l'approfondimento, ma sono pronta a scommettere che tutti coloro che scocciati dal divieto di entrare in sala a spettacolo iniziato hanno girato i tacchi, hanno poi apprezzato la possibilità di assistere alla visione fin dal primo secondo. Peccato solo per tutti quelli che, come me, si sono dovuti accontentare di una trasmissione casalinga. Ma poco importa la grandezza dello schermo, quando è Hitchcock a metterci la firma sono davvero in pochissimi a farci caso!

domenica 27 gennaio 2013

Concepire l'inconcepibile



L'Olocausto è la macchia nera del XX secolo, è il simbolo del male fine a se stesso. Tutti noi ci siamo imbattuti in testimonianze, racconti, descrizioni ed immagini riguardanti le condizioni di vita nei campi di sterminio, ma ciò non significa che siamo stati in grado di catturarne l'essenza. Una lettura sul lavoro disumano a cui erano sottoposti i prigionieri, sullo scarso quantitativo di cibo che consumavano, sulle punizioni corporali inflitte e sulle ripercussioni psichiche che ne conseguivano non è sufficiente per capire a fondo questo mondo annientatore, e non soltanto perché non l'abbiamo vissuto: la società che ha dato vita ai Lager e ai Gulag non ci appartiene più, e proprio per questo motivo concepire un luogo il cui unico scopo è la perpetrazione del male risulta difficile.
Nel 1961 Raul Hilberg pubblica The destruction of the European Jews, in cui traccia meticolosamente la storia dei meccanismi burocratici, amministrativi e organizzativi dei campi tedeschi, senza soffermarsi né sulla sofferenza delle vittime né sulla responsabilità morale; ciò che lo storico vuole invece evidenziare è la struttura funzionalista che ha reso possibile il genocidio attuato dal nazismo, descrivendone l'apparato regolamentare. Uno studio essenziale che appare come «la prima descrizione chiara di quello spaventoso meccanismo», ma non ancora in grado di farci comprendere qualcosa di inconcepibile. Se il volume di Hilberg è importante per approfondire il funzionamento degli ingranaggi lageriani, non ci aiuta però ad afferrare la portata di un'esperienza incomunicabile il cui unico punto fisso è il male nel suo stato più puro; la Arendt è ben consapevole dell'impossibilità di sottoporre questo sterminio di massa al principio della ragione, poiché ci si può avvalere di quest'ultima solamente quando il raggio di azione è delimitato dalla normalità.
I Lager sono una realtà artificiale dove i detentori del potere si arrogano il diritto di spingersi oltre ogni limite, perché ben sanno che agli occhi esterni nessuna testimonianza viene considerata veritiera proprio per il suo andare oltre l'immaginabile, perciò continuano nella loro crudele impresa che non può vantare nessun fine utilitaristico che soddisfi una qualche logica; gli uomini normali vivono con la concezione di agire in un mondo normale dove tutti si comportano in maniera normale, e udire racconti che minano questa loro credenza li destabilizza, fino a rifiutarli o comunque a ridimensionarli. Ecco che paradossalmente i detenuti diventano esseri umani non soggetti ad alcuna regola proprio perché proprietari di una mente aperta ad ogni novità -seppur negativa-, mentre i fortunati che non hanno dovuto vivere una simile esperienza si ritrovano rinchiusi in una realtà parziale, dove il male fine a se stesso non è appunto concepibile.
Forse solo un approccio di tipo letterario può consentire di cogliere la natura dell'esperienza nei Lager. Si pensi ad esempio alla figura di Franz Woyzeck, personaggio dell'eponima tragedia di Büchner che per mantenere la famiglia fa da cavia per gli esperimenti di un sadico dottore; per tre mesi lo costringe a mangiare solo piselli e a trattenere l'urina fino a nuovo ordine, ma questa situazione lo sta lentamente portando alla pazzia, facendogli sentire voci mentre ha delle allucinazioni visive. Questo parallelismo con una tragedia teatrale può forse aiutare a capire meglio l'irrazionalità che governa i campi di sterminio: Woyzeck è trattato peggio di una bestia, e il comportamento che gli viene riservato lo trascina in stato sempre più confusionale, fino a giungere alla follia estrema. Proprio a causa del suo atteggiamento squilibrato viene deriso e allontanato da tutti, poiché anche se illustrasse i motivi che l'hanno condotto alla pazzia non verrebbe creduto; l'opinione comune è in grado di comprendere solamente ciò che rientra nella cosiddetta “normalità”, e obbligare un uomo a mangiare e urinare esclusivamente dietro opportuno comando non vi è compreso.
I mali perpetrati nei Lager e nei Gulag sono un po' come Woyzeck: vanno al di là di ogni umana comprensione proprio perché esterni alla consuetudine.