mercoledì 3 aprile 2013

La (ri)vincita di PSYCO


Cosa rende grande un film? Perché alcune pellicole raccolgono critiche entusiastiche ed altre invece tendono a cadere nel dimenticatoio? Quesito alquanto interessante e di difficoltosa risposta, soprattutto tenendo conto che alcuni dei titoli che hanno fatto la storia del cinema non si sono né aggiudicati premi internazionali, né hanno concorso per essi. 
Caso esemplare è Psycho di Alfred Hitchcock, nominato a ben 4 premi Oscar senza strapparne alcuno. Eppure questo film del 1960 è rimasto nell'immaginario collettivo di molti, si continua a parlarne anche a distanza di 40 anni, inaugurando quel genere cinematografico in cui hanno trovato posto i vari Halloween e Scream. Dove sta quindi il trucco? Cosa ha fatto sì che l'opera del maestro del brivido venisse annoverata negli annali dei film che hanno fatto la storia di Hollywood? Per tentare di rispondere a questa domanda bisogna forse tentare di scavare al di là della trama ben congegnata e delle riprese minuziose. Psycho è un film che fa reagire lo spettatore, che lo lascia frustrato durante tutto il corso della visione, un film che ha reinventato la grammatica del cinema per intenderci, mettendo a nudo delle tematiche che saranno più volte riprese durante i successivi decenni, e ulteriormente rafforzato da un montaggio tanto abile quanto frenetico.
Senza tralasciare l'inquietante performance di Anthony Perkins, a Hitchcock va indubbiamente il merito di aver saputo imporre un'estetica televisiva, prendendo le distanze dal mondo patinato hollywoodiano, mettendo in piedi un intreccio senza eroi, senza star, senza alcunché che rimandi al glamour, con alla base una storia sordida e trasudante realtà. Un po' come se Spielberg si cimentasse in un'opera alla Wong Kar-wai o alla Thomas Vinterberg per intenderci.
Un regista che si immerge in un progetto distante anni luce dal suo campo di competenza, che vuole a tutti i costi realizzare un film che rientra perfettamente nei canoni della TV nonostante gli anni di militanza agli studi cinematografici di Los Angeles, un regista che si propone una sfida insomma. E che la vince. Non solo perché il progetto risulta ben riuscito, ma per la consacrazione e il trionfo di cui si è tinto: gli incassi da record e l'attenzione dei media l'hanno reso il suo maggior successo commerciale. Una pellicola che sperimenta l'interattività del cinema, che fa uscire di scena la star della locandina dopo appena un terzo della visione, in un disegno che disorienta i censori: la scena è montata talmente bene -non un grido, non il benché minimo contatto tra la lama del coltello e la carne, ma solamente musica e sangue sulle mattonelle- da evocare la morte in tutta la sua natura più primordiale -l'ambientazione fredda, la vulnerabilità del nudo-, erigendosi a capolavoro della Settima Arte.
Anche qui Hitchcock riduce i suoi personaggi a meri McGuffin il cui unico scopo è portare lo spettatore verso il 130esimo minuto, senza nessuno spazio per l'identificazione e l'approfondimento, ma sono pronta a scommettere che tutti coloro che scocciati dal divieto di entrare in sala a spettacolo iniziato hanno girato i tacchi, hanno poi apprezzato la possibilità di assistere alla visione fin dal primo secondo. Peccato solo per tutti quelli che, come me, si sono dovuti accontentare di una trasmissione casalinga. Ma poco importa la grandezza dello schermo, quando è Hitchcock a metterci la firma sono davvero in pochissimi a farci caso!

1 commento:

  1. ottimo film a me e piaciuto molto anche se l'ho visto troppe volte!

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